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E’ di Lucio Musto. E’ del 22 giugno. E’ di 557 parole.
Sant’Ansovino
Stasera, notte magica.
L’ambiente fisico è quanto di più suggestivo si possa immaginare, la memoria storica animata da innumerevoli presenze che hanno lasciato tracce infinitesime, invisibili di per sé eppure partecipi dello spirito del luogo incantato. Centomila preghiere elevate con fede nel silenzio dell’eremo, tante lacrime umane versate nel pudore di intimi dolori appassionatamente offerti in espiazione o per conforto ad un dio invisibile eppure necessario. Muto, eppure confortevole.
E’ una microscopica chiesetta, “Santuario di Sant’Ansovino in Avacelli d’Arcevia” nascosta nel più fitto del bosco sovrastante Serra S. Quirico, in fondo ad un’appena tracciato sentiero che è quasi azzardo percorrere in auto. Un tempietto romanico dall’aspetto solido di pochi metri quadrati segnato con la croce del Tempio ed una canonica (o forse un umile monastero?) quasi in rovina ma ancora aggrappato, per fede diresti più che per sostegno statico, al luogo santo.
Del X secolo, ci dicono, ma sembra più vecchio, un luogo senza tempo, antico ed immutabile come la preghiera dell’uomo.
Ci si fa musica stasera, musica particolare, e comunione d’anime. Come pellegrini di un tempo, e nella stessa logica direi, una quarantina di sconosciuti che si radunano nel luogo disagevole e seducente, intorno ad un dio bizzarro, ignoto e concreto, per soddisfare il personale desiderio di introspezione ed insieme unità con altre anime assetate della stessa misteriosa sete.
L’ispirazione del Cenobio, appunto, che in abiti attuali e mezzi meccanici potenti, è tuttavia ancora radicato e possente e ci spinge qui, nel bosco, a cercare di sfiorare nella musica un lembo della veste di Dio.
A suonare è un bel ragazzo di forse trent’anni, dall’accento vagamente straniero e gli occhi perduti nelle sue inusuali armonie. Le note che esegue su una viola da gamba del ‘600 di tonalità bassa sono quelle più consone e normali in un ambiente siffatto. Frescobaldi, Tobia Hume il “Capitain”, Ganassi… e Jenkins sonato invece, quest’ultimo, su uno sconosciuto e rarissimo strumento, il più acuto della famiglia delle viole. Liquide sequenze cinquecentesche, balzane alle orecchie e pure gradevoli al cuore, familiari come reminiscenze antiche di lontanissime passioni dei padri in qualche modo trasmesse nel sangue e nel brivido di emozioni segrete.
Intorno, nella piccola sala, accosciati su artistici tappeti tessuti chissà quando da chissà quale animo sensibile noi quaranta, meditiamo in silenzio, ognuno preso nell’intimo colloquio con il “tu” di se stesso, consapevole, difeso, protetto e rasserenato dalla presenza silenziosa di tutti gli altri.
L’ancestrale sicurezza del branco è palpabile in questa tana artificiale di pietre bianche e mattoni rossi appena rischiarata da una ventina di fiammelle.
Fra noi, con noi, eppure perdutamente preso dai suoi accordi, il giovane violista carezza il suo strumento, lo sfiora con languidi accenti, gli parla con sospiri brevi, a tratti ansimanti, a tratti pacati e molli. E lui, lo strumento, (o è forse una “lei”?) risponde al suo maestro con note vibranti che anche i nostri cuori (ma non so se le udiamo davvero), percepiscono perfettamente.
Lui va per la sua strada, con le sue note, col suo dire fra sé, e noi lo seguiamo volentieri, in carovana di serena letizia, a realizzare quell’Arte, che nata nel pensiero di uno, tanti secoli fa, ancora si manifesta e realizza. Nel bello che gira, nell’amore che si condivide.
Poi la musica tace e l’incanto svanisce. O no? ci sembra, stasera, di essere un pochino più buoni.